La “violenza buona”

La “violenza buona”

La premessa è che queste idee le volevo mettere nero su bianco già da un po’, il fatto che sia da poco scoppiata la guerra in Ucraina è una contingenza. Detto questo, ognuno faccia le speculazioni, in senso buono, che ritiene più opportune.

Una contraddizione in termini

Una delle cose che trovo più contraddittorie nella cultura di mezzo mondo, o forse più, è il concetto di “violenza buona”. Pensate ai miti più antichi e poi alla letteratura, ai fumetti, ai film. Alle storie di un tempo, come a quelle di oggi. Alle epopee degli eroi, figura anch’essa controversa quella dell’eroe, e ai percorsi catartici dei giustizieri savi, più o meno eroi, ma sempre carismatici.

Il concetto di violenza  “buona”

Tutto il nostro mondo, e tutta la nostra esistenza, dalla nascita alla morte, è pervasa da un concetto cardine: se la violenza è a fin di bene, è giustificata. Ora utilizzare l’espressione “a fin di bene” complica ulteriormente il discorso, quindi semplifichiamo – si spera – con termini che richiamino ancor più il concetto socialmente condiviso: “se la violenza è utilizzata contro i malvagi, essa è giustificata”. Riecheggia quel “occhio per occhio” del Codice di Hammurabi, perché in fin de’ conti, cosa vuol dire che un certo grado di violenza è permesso solo contro chi è cattivo? Vuol dire che il cattivo ha usato in precedenza violenza, questo lo rende cattivo, e per questo siamo autorizzati, noi o il giustiziere a seconda dei casi, ad utilizzare nei suoi confronti la stessa violenza, anzi no, un grado superiore. Dal momento che l’eroe, di solito, stermina molti più cattivi di quanti buoni questi ultimi riescano a colpire.

Analisi del concetto

Certo, le quantità possono essere legate al Racconto, torniamo quindi con i piedi per terra e analizziamo ancora una volta il concetto base: “cattiva azione” implica “punizione”. La punizione è compiuta attraverso la “violenza buona”. Funziona così anche l’ordinamento giuridico. “Il dito più lungo della tua mano è l’indice” diceva De André. Il giudice punta il dito contro l’imputato, contro il colpevole, e lo condanna a subire una sorta di violenza – pfui – “redimente”. Ancor prima del giudice ci sono i reparti operativi di polizia che possono mettere in atto un grado di violenza pari o superiore a quella esercitata dal cattivo.​

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Nel caso della condanna del giudice pensate 1. alla detenzione (che è ovviamente una forma di costrizione e violenza) 2. alla sedia elettrica (in quegli stati che approvano la pena di morte). Sei colpevole? Sei un cattivo, ti posso punire fino al massimo grado conosciuto.

Nel caso della violenza delle forze di polizia o dei corpi armati pensate agli scontri di piazza, a certi interrogatori, agli scontri a fuoco: ne abbiamo esempi in tutto il mondo. Tornando sempre in America vengono in mente le uccisioni di cittadini di colore, ma questo aprirebbe una nuova linea di pensiero che non è il punto centrale di questo scritto.

L’aspetto morale nell’interpretazione comune

Non stiamo infatti discutendo se il cattivo sia davvero cattivo. Anzi! Nel ragionamento dobbiamo prendere in considerazione un cattivo che sia davvero tale. Cattivo e colpevole. Tornando ai casi di cui si occupa la legge, possiamo pensare ad un assassino, ad uno stupratore, ad un pedofilo, ad un ladro. Egli o ella, commette un crimine, commette una malvagità, fa uso di violenza. Il corpo sociale – tutto o la parte di esso demandata a tale scopo – identifica la sua violenza, la riconosce, la condanna, la “monda” – o semplicemente “corregge” se preferite – con un’altra violenza. E in fatto di violenza è difficile dire quale sia più grande. Potremmo sbilanciarci dicendo che spesso la “violenza buona” è maggiore della “violenza cattiva”, deve esserlo per soddisfare il tribale bisogno di espiazione e purificazione o – detto con maggiore fermezza e presa di posizione politica – il bisogno di vendetta. Non solo quindi il “desiderio” di vendetta, ma proprio il “bisogno”, sociale e individuale. “Occhio per occhio”. Ho subito un danno, ora tocca a te che me lo hai procurato, nella declinazione individuale personale.

Conclusioni

È forse in questo ultimo passaggio che troviamo la vera ratio della “violenza buona”, che buona non può essere. La violenza buona, non è un modo per ristabilire un equilibrio superiore in cui tendiamo a Dio, alla perfezione, ai buoni sentimenti e ad una sistemazione delle cose del mondo. La violenza buona è esattamente l’opposto. È soffio di vento che attizza le braci del nostro essere belve sanguinarie cresciute nella notte dei tempi e nel buio cosmico di un universo freddo e cieco alla nostra miseria. ​​​​​​​​​​​​​​​​

"La Guernica" di Pablo Picasso, dipinto-manifesto contro la follia della violenza
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Sergio Procacci

Esperto di comunicazione e linguistica, è attivo come ricercatore e ufficio stampa. Laureato in Scienze della Comunicazione all'Università di Bologna e in Lingue e Letterature Moderne all'università di Cassino, con un'esperienza in Canada presso la Facoltà di Lingue straniere di Windsor. Parla fluentemente Inglese, Francese e Spagnolo e ha una conoscenza basilare del Russo e del Maltese. Direttore dell'agenzia di comunicazione www.iocomunico.net è candidato maestro e istruttore federale di scacchi per www.ciociariasscacchi.it. Il suo saggio "True Friends. Quando l'inglese non ti inganna", sull'insegnamento della lingua inglese, è edito da ID-DAR Edizioni e disponibile sulla piattaforma Amazon.

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