Nella società occidentale il lavoro poggia su alcune basi date storicamente per inoppugnabili: lavorare almeno 8 ore al giorno per cinque giorni a settimana appare, almeno in molti Paesi un dato di fatto. Bisogna essere produttivi, pena il rischio di diventare poveri. Ma è davvero così oppure le cose possono essere impostate in modo differente?
Il ruolo della Rivoluzione Industriale
La struttura della società occidentale attuale trae le sue origini dalla Rivoluzione Industriale, che portò uno spostamento della popolazione dalle campagne alle città, in quanto sede dei mezzi di produzione. In particolare dalla metà dell’800, con la seconda rivoluzione industriale cominciò a prendere vita l’attuale assetto sociale con la ripartizione della giornata come viene conosciuta. Con l’imporsi dell’industrializzazione dei Paesi occidentali sono aumentate anche le ore lavorative, fino a occupare gran parte della giornata quotidiana. Questo poteva avere un senso dal punto di vista della produttività, ma le migliorie della tecnologia a disposizione è avvenuto il paradosso per cui la produttività è aumentata ma le ore di lavoro non sono scese, in alcuni casi sono addirittura aumentate. Per la maggior parte della sua Storia l’umanità ha avuto molto più tempo libero che occupato da mansioni lavorative. Anche la Preistoria a quanto pare non era una fase dell’esistenza umana caratterizzata da un’incessante lotta con la scarsità e questo è osservabile nelle tribù isolate rimaste ancora al Paleolitico. “Partecipare a una battuta di caccia è più divertente che fare l’impiegato” disse un antropologo osservando il senso di straniazione e noia che possono provocare alcune attività di concetto rispetto ad altre che invece possono avere più in comune con il gioco. Per alcuni antropologi gli sport, soprattutto quello di squadra perché si cacciava solitamente in gruppo, sarebbero attività ancestralmente eredi della battuta di caccia piuttosto che della guerra come invece si potrebbe pensare.
Ruolo sociale del lavoro
Le giornate lavorative di molti lavoratori sono dilatate anche per svolgere mansioni che potrebbero invece venire svolte con successo in molto meno tempo introducendo soltanto qualche semplice accorgimento organizzativo. Molti lavoratori lamentano mansioni ripetitive in cui non trovano un reale significato e una tangibile utilità. Accanto a questa situazione comune a molte persone si affianca la progressiva perdita di molti posti di lavori dovuta all’aumento dell’automazione. Alcune nuove figure professionali stanno parzialmente per rimpiazzare le vecchie ma il divario rimane, specie nelle zone meno avanzate, e questo rende ancora più difficile trovare un lavoro e in molti casi quasi utopico avere modo di scegliere un lavoro che possa piacere. Il problema non è solo di natura economica ma anche psicologica: molto spesso il lavoro costituisce il mezzo cardine su cui l’individuo nella società moderna costruisce la propria immagine sociale e attraverso cui trova collocamento in essa. Grazie al lavoro l’individuo trova quindi una posizione attiva nella società, imbastisce relazioni e trova uno scopo continuo e attuale, infatti il pensionamento costituisce una sorta di congedo dalla comunità per molte persone che non sanno più reinventarsi un ruolo e soprattutto un obbiettivo. D’altro canto il lavoro prende la maggior parte delle energie e del tempo della persona che così spesso non ha modo di costruire niente di significativo al di fuori della giornata lavorativa. In un sistema spietatamente competitivo, come avviene in molti ambiti lavorativi, le relazioni sono soprattutto di tipo prettamente strumentale, in un contesto che tende a premiare con avanzamenti di carriera e aumenti di stipendi i più insensibili, sfrontati ed efferati, quelli che non indugiano a mettere da parte remore e valori per obbedire a quello che il sistema vuole. Se sposare questo atteggiamento da arrampicatori sociali da una parte premia dall’altra sovente impedisce di stabilire legami genuini e duraturi. “Se vuoi un amico prenditi un cane” dice il magnate della finanza Golden Gekko, interpretato da Michael Douglas, al suo allievo, il giovane e rampante Bud Fox, reso sul grande schermo da Charlie Sheen, in Wall Street, iconico film del 1987 di Oliver Stone.
Alcuni lavori poi non danno nemmeno l’occasione di creare una rete di relazioni umane, buona o cattiva che sia. Ma quindi se il lavoro arriva a occupare tempo senza nemmeno dare in cambio dei benefici sociali? Si dà per scontato che lavorare dalle 9 alle 14 e poi dalle 15 alle 18 sia per molti la normalità ma nelle società precedenti alla terza rivoluzione industriale (che in Paesi come l’Italia arrivò dopo la Seconda Guerra Mondiale affermandosi pienamente solo dagli anni ’60 e poi solo in alcune aree del Paese) le ore dedicate al lavoro occupavano soltanto mezza giornata. Molte festività poi sono state soppresse, sacrificate all’altare della produttività. Questo ha fatto sì che il lavoro andasse ad assumere un ruolo più totalizzante nella vita dell’individuo, che si è così progressivamente alienato dalla comunità di appartenenza: vengono meno le occasioni di reale condivisione, cose da fare insieme per tracciare e cimentare i rapporti, al punto da rendere più separati i membri della comunità. Se un tempo chi viveva nei piccoli centri partecipava alle frequenti feste e tradizioni paesane, con l’assottigliarsi degli spazi occupati da queste iniziative semplici ma utili a proporre iniziative condivise si è avuto un blando associazionismo spesso autoreferenziale e dall’attività episodica che sovente non è in grado di proporre alternative particolarmente significative. Lavoro, connessione ai social network e visione di serie televisive prima di andare a dormire, questa è una routine diffusa, perfettamente in linea con il bisogno della società industrializzata di assorbire la quasi totalità delle energie: nel tempo libero non resta che eseguire azioni passive.
La carta dello smart working
Per restituire maggiore libertà ai dipendenti e così aumentare la loro produttività è stato utilizzato lo smart working, il lavoro a distanza, ovviamente per i lavori che possono essere svolti senza un luogo fisico fisso. Con il lockdown del 2020 lo smart working, il lavoro con orari flessibili e senza sede fisica prestabilita, è stato sperimentato in modo repentino e senza eccessiva organizzazione ed è stato criticato da coloro che non lo hanno considerato un modo serio per affrontare il lavoro. Tuttavia se ben organizzato può permettere al dipendente di organizzare liberamente il proprio tempo, risparmiarsi il tragitto da casa a lavoro e allo stesso tempo non inficiare la produttività, in alcuni casi aumentandola. Servirebbero dei giorni fissi in presenza per promuovere condivisione degli obbiettivi e socialità nel contesto lavorativo, per far sentire il singolo parte di un progetto condiviso.
Vita e lavoro, un equilibrio possibile
Trovare un equilibrio risulta un’impresa possibile. In Paesi europei come la Svezia è stata introdotta la settimana lavorativa di 36 ore mentre è in sperimentazione in alcune aziende la settimana di quattro giorni dal lunedì al giovedì. La qualità del lavoro conta ben più della quantità ma per applicare questo principio non solo a parole bisogna liberarsi di vecchi schemi. Tuttavia non basta. Si dovrebbe offrire all’individuo un modo per recitare un ruolo attivo e gratificante in società e prescindere dal lavoro. Spesso ci si lamenta della mancanza di stimoli che offre la provincia, sia passivi con gli eventi che attivi con le iniziative in cui svolgere un ruolo fattuale. Essa ha perso il ruolo aggregante che aveva nella società preindustriale con le già citate iniziative di partecipazione popolare. D’altra parte molti luoghi aggregativi offrono una finta socialità, laddove portano persone a uscire in contesti dove non avviene una reale condivisione di nulla, portando al paradosso di gente che esce per incontrare altra gente con cui quasi mai interagisce. Contesti dove l’alcol funge da surrogato di un collante vero e proprio. Ben inteso, non c’è nulla di sbagliato nella presenza di situazioni di questo tipo, il problema si pone quando queste costituiscono l’unico modo di socializzare partecipare alla vita pubblica. Bisognerebbe rivedere il paradigma educativo quando invece la scuola fa danni enormi imponendo uno studio asettico e nozionistico. Bisognerebbe incoraggiare le persone a trovare e coltivare le proprie autentiche passioni, meglio se queste possono essere collegate a un compenso ma non necessariamente connesse ad esso (qualcuno effettivamente trova il suo sano ed equilibrato centro nella propria attività lavorativa ma questo per forza di cose non può addirsi a tutti), concetto che nella cultura giapponese viene chiamato ikigai. Bisognerebbe mettere il territorio nelle condizioni di attivarsi in iniziative continue attraverso un associazionismo sano e attivo sostenuto da investimenti e politiche mirate, ovviamente nei limiti contingenti del possibile. Bisognerebbe ricordare che non si vive per lavorare ma si vive per vivere. Appieno.
Riferimenti
Cali Ressler e Jody Thompson, Perché il lavoro fa schifo e come migliorarlo, Roma, Elliot, 2008.