L’età dell’oro è un’epoca idilliaca in cui tutto andava bene in contrapposizione al decadimento dei tempi moderni. Che cosa c’è di vero e che implicazioni può portare con sé questo concetto?
Che si intende per Età dell’Oro?
Era meglio quando era peggio, quante volte abbiamo sentito questa frase? Come se il mondo andasse progressivamente guastandosi, in una spirale di deterioramento inarrestabile. Ma è così? Se le cose stessero davvero in tal maniera il mondo sarebbe andato alla malora da un pezzo. A volte le cose peggiorano, è innegabile, ma non si tratta in realtà di una spirale ininterrotta secondo cui le cose ad ogni generazione vanno peggio. Il cammino a ritroso, stando all’immaginario popolare, porterebbe a un’epoca beata in cui tutto andava bene e che si rimpiange amaramente anche se spesso chi la cita non sarebbe in grado di tratteggiarla con esattezza. Il concetto di Età dell’Oro affonda nell’antichità le proprie origini, esprimendo la sensazione che la vita umana è da sempre vista come un’amara lotta continua e questo elemento ne costituisce una spiegazione e al contempo una consolazione.
L’Età dell’Oro fuori dalla Letteratura Classica
Il primo che nella cultura occidentale ne parla è il greco Esiodo, ma esistono miti al riguardo un po’ in tutto il mondo a riprova del fatto che si tratta di un’espressione di un sentire comune. Un vero archetipo. Nella musica il brano “L’Era del cinghiale Bianco” di Franco Battiato, che dà il nome all’omonimo album del 1979, si riferisce a un periodo leggendario presso la tradizione degli antichi Celti: indicava un’era di profonda conoscenza spirituale e consapevolezza rappresentata appunto dal cinghiale bianco.
In tante culture si narra di un’epoca meravigliosa dove gli esseri umani indistintamente erano felici e non morivano, non si ammalavano e non dovevano lavorare per sostentarsi. Nell’Induismo c’è il Satya Yuga, era in cui ogni aspetto della vita era corrispondente all’ideale e l’intelletto umano poteva comprendere tutto incluso il divino. Similmente si prosegue via via per stadi deteriori fino al Kaly Yuga, epoca oscura caratterizzata dai conflitti e dall’ignoranza spirituale. Anche qui il paragone con la corrispettiva Età del Ferro, ossia l’epoca attuale, ci sta tutto. In queste versioni l’impeto religioso e quello politico sono più o meno accentuati.
Nell’antica Grecia
Il mito è giunto a noi attraverso i Greci e per capire la loro cultura non si può non considerarla in un contesto più ampio che include le altre civiltà del Mediterraneo antico e del Vicino e Medio Oriente. Il primo che ha trasmesso questo mito è il sopra citato scrittore Esiodo.
Il concetto base è che mentre ora la vita degli uomini è dura, c’è stata un’epoca in cui tutti gli aspetti aspri e negativi dell’esistenza non c’erano. Esiodo descrive 5 epoche, il cui declino è simile a quello parallelamente presente nell’induismo. Assimilabile all’età attuale di completa decadenza è appunto l’Età del Ferro. In contrapposizione l’autore ellenico chiama generazione d’oro la stirpe aurea quella a cui appartenevano le genti di allora: essi vivevano come dei, senza affanni e pene, senza vecchiaia. Nell’Eden biblico gli uomini morivano come vinti dal sonno. La terra dà frutti senza lavorare per cui la fatica non è necessaria. Le cose sono andate peggiorando progressivamente regredendo verso età sempre peggiori, fino a quella del ferro, caratterizzata dal non rispetto della giustizia divina, la dike, e dalla tracotanza, la ubris.
“Quelli là dell’epoca d’oro erano capaci, noi siamo dell’era di ferro, nella quale si rispetta solo chi è malvagio, non chi è buono: la giustizia diventa l’imposizione del più forte, l’utilizzo della coscienza è ad appannaggio dell’Età dell’Oro”
Questo è l’implicito messaggio di rimprovero alla società. In potenza c’erano elaborazioni interessanti e polemiche, accennando al tema che sono i violenti ad essere rispettati in virtù del fatto che si impongono con la forza. Esiodo va così vicino a dire che sono i malvagi a comandare, ma la questione resta non troppo evidenziata nella letteratura greca.
Nell’Antica Roma
Innanzitutto nella Storia romana ben presto si cominciò a rimpiangere la rettitudine e i valori degli antenati, i mos maiurum: coraggio, lealtà, giustizia, la devozione verso gli dei, l’attaccamento alla propria famiglia e il senso di appartenenza alla comunità. Erano i valori che si rimproverava alla società di aver progressivamente smarrito nel tempo: il tema del progressivo deterioramento dall’antica rettitudine qui è molto forte. Parlando espressamente di Età dell’Oro nella letteratura latina, invece, si trovano particolari che cambiando possono dare un significato diverso al mito. Sono due principalmente gli autori a trattare il tema: Orazio e Virgilio. Entrambi ne fanno ricorso nello stesso periodo: siamo a cavallo del 40 a.C., periodo in cui si assiste al secondo triumvirato e alla Guerra Civile. Tuttavia gli approcci al tema sono differenti. Orazio riprende tema e, nella Roma della Guerra Civile e del Secondo Triunvirato tra Ottaviano, Marco Antonio e Lepido, dice candidamente che le cose vanno male e che quindi sarebbe meglio se I Romani si imbarcassero nelle Isole Beate dove gli eroi, che con le loro azioni si erano conquistati l’immortalità vivendo in una beatitudine simile a quella dell’Età dell’Oro. Questo perché, in un periodo di grande incertezza, vedeva nero il futuro a Roma. “Sarebbe bello se potessimo scappare e rifugiarci” dichiara senza giri di parole. Negli stessi anni Virgilio parla nella IV Ecloga delle Bucoliche di un fanciullo nascituro destinato non solo a riportare la pace ma che farà addirittura tornare l’Età dell’Oro. Un’astuta mossa per aggraziarsi chiunque uscirà vincitore tra i contendenti della Guerra Civile che stava decidendo i nuovi equilibri di potere nella più grande potenza economica e militare mondiale, sancendo il passaggio dalla Repubblica all’Impero?
Nell’ epoca aurea indicata da Virgilio non c’era proprietà privata, tutto era in comune, ideale comunitario, “comunista”. Durante la guerra civile non si sa chi vincerà. A Orazio, che vuole scappare, ribatte Virgilio invitando a restare a Roma perché proprio nell’Urbe sta per tornare l’Età dell’Oro. Virgilio inventa il concetto del possibile ritorno dell’Età dell’Oro e anche se ritornerà ci sarà la tentazione di fare le cose alla vecchia maniera andando uno contro l’altro, di nuovo a “solcare il mare, murare città, arare la terra”.
C’è già qui un’idea nuova dei Romani che c’è qualcosa di malvagio nel modo in cui noi aggrediamo il mondo, Romani che dominano il mondo e lo civilizzano, qui invece nei loro poeti compare l’idea come se ci fosse una violenza che l’uomo fa al mondo, anticipando l’ecologia e la sua critica all’inquinamento causato dalle attività umane. Arrivò poi il principato di Augusto e si identificò questo bambino con lo stesso Ottaviano, che guidò Roma in un’epoca prospera in cui cominciò la fase dell’impero. Successivamente i il Cristianesimo si diffuse a Roma e i Cristiani identificarono questo bambino con Gesù Cristo: eloquente come ognuno possa leggere nel mito quello che vuole a seconda delle contingenze e i cambi di potere nel tempo. Tuttavia quello che con certezza voleva dire Virgilio tratteggiando questo fantomatico messia rimane un mistero. Il corso della Storia vede appunto Ottaviano Augusto con in mano le redini di Roma, Virgilio scrive l’Eneide con l’intendo di celebrare la grandezza della Città Eterna: quello che deve essere il poema nazionale della romanità comunica che Roma regna sul mondo per diritto divino. Virgilio si ricordò di quando accennò all’Età dell’Oro e si trova servito il gioco opportunistico di identificarlo con Augusto, l’uomo della provvidenza che è giunto al potere : troppo facile a questo punto dire che il bambino era lui, quando ancora nulla poteva lasciarlo presagire. L’Eneide si svolge tanto tempo prima, epoca in cui si profetizzò la venuta del Princeps: con lui ritorna l’agognata Età dell’Oro, Virgilio così nell’Eneide sostiene che la profezia si realizzerà proprio con l’arrivo di Augusto.
Il ruolo politico
Nella tradizione romana Saturno arriva nel Lazio ci trova i rozzi Rutuli e dà loro le leggi: nell’Età dell’Oro laziale, romana, c’erano le leggi date da un sovrano giusto. In Virgilio anche nell’età dell’Oro servono le leggi perché nella sua propaganda l’Età dell’Oro deve rivivere con l’impero. Ovidio invece, più giovane, ha un altro atteggiamento, non riflette sempre su conseguenze di quello che dice, non badando al ruolo politico che invece il suo collega valuta con attenzione. Ovidio evidenzia indirettamente che in una società perfetta dove gli esseri umani hanno piena consapevolezza non hanno bisogno di leggi. Quest’ultime sono il sintomo, invece, di una società immatura e bisognosa di una guida esterna perché la loro coscienza non è abbastanza sviluppata. È con le Le Metamorfosi che l’autore va dritto al punto: non c’era bisogno di una provvidenza che dava leggi e imponeva la nascita proprietà privata e lo “scavar metalli”. Ovidio sviluppa un discorso altrimenti poco sentito nella letteratura antica e che invece suona molto attuale: il denar può corrompere tutto in un contesto dove il rispetto viene guadagnato grazie alla paura che si incute, e negli Amores Ovidio rincara la dose affermando che gli onori vengono portati soltanto dai soldi e anche un magistrato che si presenta con tutta la solennità del ruolo che riveste in realtà ha ottenuto i suoi onori e il suo prestigio proprio grazie alla disonestà. Si abbozza quindi a un collegamento tra la fine dell’Età Oro e l’inizio della struttura sociale vigente: è un’interessante novità che verrà ripresa nel Medioevo. Il mito dell’Età dell’Oro sostanzialmente serve per adulare chi detiene il potere oppure, al contrario, per denunciare che la società non è più quella che dovrebbe essere. Seneca nella Fedra torna sull’Età dell’Oro dove sottolinea, con connotazione moralistica, che l’uomo ha schiavizzato la Terra i suoi interventi dettati dalla sete di potere e San Giovanni Crisostomo, considerato uno dei padri della Chiesa, significativamente in un clima di crisi della centralità del potere di Roma in un periodo in cui la stessa Romanità stava per spegnersi, dirà addirittura che la casa dell’imperatore è “fradicia del sangue”. Di contro, come si è già visto, la propaganda imperiale sfrutta senza remore il mito dell’Età dell’Oro per legittimare il potere degli imperatori. Commodo arriva a dichiarare al Senato che sua la vita segna una nuova “Età dell’Oro”. Con Costantino l’adulazione sfrenata dei suoi poeti torna su questo tenore, “con te son tornati secoli d’oro” cantano i loro versi. Parallelamente resiste un discorso oppositivo nascosto avverso allo status quo, con carmi che si auspicano un ritorno all’Età dell’Oro, comunicando quindi che l’epoca vigente era ben lungi dall’essere esente da degenerazione e depravazione.
Due modi opposti di intendere l’Età dell’Oro
Il Medieovo con la letteratura in volgare rinnova l’interesse nell’Età dell’Oro: agli uomini dell’epoca di mezzo non interessa tema natura aggredita, ma sono più presi dalla spinosa questione dell’origine della diseguaglianza tra gli uomini, a riprova che l’idea del Medioevo come 1000 anni di annebbiamento culturale è una semplificazione fuorviante. Il mito dell’Età dell’Oro può essere utilizzato in due modi simili ma speculari:
- Un’Età dell’Oro vista in modo ottimistico e allo stesso tempo reazionario, che giustifica lo stato delle cose così com’è. La nobiltà, con la cavalleria, nasce dall’Età dell’Oro e si perpetua per arginare violenza, invidia, malignità e da qui nasce il bisogno di scegliere i migliori i quali ereditariamente avrebbero potuto difendere e proteggere gli altri, la figura del re si afferma perché uomini decisero che ne avrebbero bisogno per stabilire l’ordine. Nessuno crede che il re venne messo da dio: il re nell’ Età dell’Oro non c’era ma poi divenne indispensabile per arginare lo spirito di sopraffazione presente nella natura umana, secondo il principio dell’homo hominis lupus successivamente sviluppato dal filosofo inglese Thomas Hobbes.
- Un’Età dell’oro vista come un’epoca che ha preceduto le attuali ingiustizie e storture in cui gli uomini hanno abbandonato una sana e idilliaca “primordialità” e innocenza. Non si viaggiava e tutto era in comune, tutti erano ricchi allo stesso modo, si amavano fra loro, poi comparvero i peccati come inganno e orgoglio, la povertà con suo figlio il furto e con essi le cose si son messe male e gli uomini hanno cominciato a essere avidi d’oro a frugare per la terra, invidiosi l’un altro, si cominciarono a poggiare le pietre di confine, l’invidia si diffondeva seminando discordia, si verificarono reati e delitti. Gli uomini delle comunità decisero che avevano bisogno di affidarsi a qualcuno, si stabilì così che il più grosso venne nominato principe e signore e che avrebbe difeso la comunità in quanto più prestante fisicamente e quindi più portato allo scontro fisico, purché ognuno di loro desse da vivere. Così nacquero la tassazione e vennero giustificate le rendite del re. Tutti quelli che stavano accanto al re decisero di presentarsi alla comunità come suoi aiutanti e così nacque nobiltà. Cedere la libertà per sicurezza e gli uomini peccatori ci sono cascati, lì nacquero re, la nobiltà e le disuguaglianze.
Il mito dell’Età dell’Oro non parla tanto dell’esigenza di ricostruire le origini della civiltà quanto invece del modo in cui si vede e si vive il proprio tempo. Come impara il protagonista del film Midnight in Paris Gilbert “Gil” Pender, l’aspirante scrittore interpretato da Owen Wilson e alter ego di Woody Allen, che sognava di trovarsi nella Parigi dei Ruggenti Anni ’20, si ritrova magicamente in quell’epoca che aveva tanto idealizzato arrivando alla conclusione che siamo noi a ammantare di magia le ere passate perché non ci sono più per poter trovare in essere un rifugio immaginario dalle amarezze e insoddisfazioni della quotidianità, ricordiamo una cosa: l’unica età che possiamo cospargere d’oro, nei limiti del contingente e del reale, è quella che stiamo vivendo.
Riferimenti