La deontologia del giornalista è tematica complessa per chi è del mestiere. Il giornalismo è infatti un lavoro di artigianato complesso, un esercizio di verità. Ed è proprio la ricerca della verità il dovere cardine a cui ogni giornalista deve votare la sua esistenza.
Dire la verità, dopo averla minuziosamente ricercata per confezionarla ai lettori, significa adempiere ad una missione che per il giornalista è una missione quasi divina.
“…Ho pensato che una storia
sarebbe stata più avvincente se avesse riguardato una sola persona,
così ho fatto quello che un giornalista non dovrebbe fare mai: non ho detto la verità”
Ed ecco che lo spettatore viene catapultato nel vivo della tematica centrale della vicenda: la deontologia del giornalista, che impone di ricercare la verità anche se a discapito dello scoop.
Dovere sacrosanto al quale non si attenne il reporter del New York Times, Michael Finkel, che nel 2002 era impegnato in un’inchiesta di giornalismo investigativo, nella quale aveva scoperto alcuni macabri e drammatici episodi di sfruttamento nelle piantagioni di cotone ai danni di un gruppo di braccianti.
Anzichè narrare i fatti per come ne era venuto a conoscenza,
Finkel li manipolò
e ne costruì un caso mediatico
attorno alla figura di uno solo di quei lavoratori sotto sfruttamento.
Michael Finkel non raccontò la verità, ma costruì un personaggio ad hoc, riconducendo ad unica figura, quasi romanzandola, una serie di episodi di segregazione razziale che riguardavano, invece, una comunità intera di lavoratori di colore.
Poco dopo aver perso il suo posto di lavoro al New York Times, Finkel scopre che uno dei serial killer più pericolosi d’America, Christian Longo, accusato di aver sterminato la famiglia, aveva usato come pseudonimo proprio il nome Michael Finkel.
Ecco per Michael Finkel un’occasione unica di riscatto: Indagare sull’identità del presunto assassino tirandone fuori una meravigliosa storia d’inchiesta per riconquistare il podio nel New York Times.
“…Perché Longo?
Perché tra tanti hai scelto
proprio me,
che sono nessuno?”
“Io ho letto tutto di te…
facciamo un patto! Io ti do
l’esclusiva e tu mi insegni a
scrivere”
Eccola, dunque, l’occasione unica per il riscatto della propria reputazione. Sta lì, offerta su un piatto d’oro colato. Occasione per tornare in vetta, per tornare sulla cresta dell’onda.
Per Michael Finkel l’inchiesta Longo avrebbe potuto significare ottenere un grande racconto, rispettando al contempo la deontologia del bravo giornalista; raccontando la verità così come i fatti la presentavano. Limitandosi solo a condire il tutto con sapiente arte narrativa.
Il problema, però, sarà proprio rappresentato dalla verità stessa:
Christian Longo era innocente o colpevole?
Proprio su questo punto il dramma psicologico del protagonista si evolve, quasi si trasmuta, in un trip narrativo.
Attraverso la sapiente realizzazione cinematografica di Rupert Goold lo spettatore è trascinato, come in un vortice, in quella che si rivela una drammatica crisi di identità del giornalista Michael Finkel.
Crisi di identità che passa per una perversa amicizia, mista a soggiogante ammirazione, quella di Finkel per Longo.
L’iniziale infatuazione del presunto killer per il reporter del Times si sarebbe rivelata una trappola micidiale, in grado di invertire le parti fino a confondere persino la stessa veridicità empirica dell’accaduto.
Ed è proprio il gioco delle parti a farla da padrone, in un confuso e quasi mistico inseguimento di una realtà scomoda che è certamente come è, ma non sembra voler essere mai vera fino in fondo.
Ed è in questa danza di maschere che, come in una finzione pirandelliana, Finkel finisce per perdere la bussola del proprio Io a tal punto che non gli resta che impugnare la penna e scrivere.
Scrivere la sceneggiatura che trasformerà questa storia in un grande colossal cinematografico.
Bibliografia/filmografia:
– Regia di Rupert Goold, sceneggiatura di Michael Finkel, film True Story, 23 Gennaio 2015 Park City, USA
– Michael Finkel,True Story, Piemme ed. Gruppo Mondadori, Milano, 2005