La psicologia, in finanza, sembra conti più dei freddi calcoli matematici e la storia mostra come l’agire umano sia spesso fortemente irrazionale e come le pulsioni emotive spieghino le cose meglio di grafici e stime statistiche.
Che la finanza fosse definibile come la forma concreta dell’economia reale, si sa dalla nascita di quelle teorie, tra ‘700 e ‘800, che hanno cercato di fornire una spiegazione logica e razionale, talvolta anche filosofica, al fenomeno del commercio e del denaro.
Facciamo un gioco!
Supponiamo che un misterioso viandante vi offra 100 dollari, a condizione che offriate una parte di quella somma ad un vostro amico.
Se il vostro amico accetterà voi incasserete la differenza, se rifiuterà nessuno porterà a casa nulla.
Quanto offrireste?
Un processo naturalmente insito nell’uomo, quello di scambiare beni per ottenere altri beni, che ha caratterizzato le culture antichissime fin dall’antichità, come ad esempio i Popoli del Mare, prima dei Fenici, degli Egizi degli Etruschi, dei Greci e dei Romani. Essi furono i primi veri commercianti al mondo che a spostarsi lungo tutto il Mediterraneo, circa 2000 anni prima della venuta di Cristo.
I primi scambi commerciali si riconducevano al baratto di pelli, animali, utensili in legno e pietra, cibo. Si è arrivati poi alla comparsa del primo metallo; il rame, oltre 7000 anni fa, alla fine dell’ultima fase della Preistoria nota come Neolitico in seguito alla quale si sarebbe entrati nel periodo arcaico di cui i Popoli del Mare furono i protagonisti.
Curioso notare come il primo vero economista che la storia abbia mai avuto non ricevette neppure un premio Nobel. Adam Smith non poteva essere insignito di tale onorificenza, vuoi perché questa sarà introdotta circa un secolo più tardi, vuoi perché l’economia come scienza la stava inventando proprio lui in quel momento.
Da allora in poi sarà un crescendo di teorie e modelli matematici, fino ad arrivare ad un momento in cui ci sarà qualcuno, sulla cui scia si susseguiranno molti altri, che comprenderà quanto sia spesso inefficace ricondurre i risvolti economici di una società alla fredda e razionale logica dei numeri e del calcolo.
Adam Smith fondò la portanza della sua ricerca, circa le cause della ricchezza delle nazioni, facendo riferimento alla significatività del lavoro nel determinare il progresso economico di una società e della Nazione da essa costituita. Smith rappresentò un passo in avanti rispetto al principio naturalistico proposto dai Fisiocratici che vedevano invece nel possesso della terra l’unica reale ragione del guadagno. Sebbene da questi Fisiocratici Smith ne assorbì una certa contaminazione, sviluppò un concetto nuovo e rivoluzionario, anche rispetto a quanto proponevano i Mercantilisti. Quest’ultimi ponevano il denaro e i metalli preziosi al centro della ricchezza di una Nazione.
Adam Smith ammirando con ingenua consapevolezza la perizia con cui gli operai di una fabbrica di spilli di Edimburgo si dividevano il lavoro, elaborò la teoria secondo cui non è la terra, non è l’oro o il denaro a decretare le basi per il prosperare dell’economia di un Paese, quanto piuttosto i suoi cittadini si dividono abilmente e diligentemente il lavoro, organizzandolo per fasi.
Un approccio se vogliamo fortemente razionale, se pur incentrato sulle abitudini comportamentali dell’individuo. Ecco dunque che gli studi di Smith posero le basi per il concetto dell’ Homo oeconomicus, in grado di intraprendere solo ed esclusivamente scelte razionali e volte ad accrescere il proprio benessere in termini di salute e ricchezza. Tale visione sarà perfezionata attorno al 1800 da John Stuart Mill che si formerà proprio sugli scritti di Adam Smith e David RIcardo.
Essendo la collettività composta da individui razionali, le cui azioni sono orientate al perseguimento del proprio utile, l’intera società sarà portata a progredire sospinta da una razionalità universale, che è unione della logica razionale dei singoli individui che vi operano. Traslando quest’approccio alla sfera economica si ha il liberismo più puro nella teoria della mano invisibile e del “lascia fare”. Non ha senso per lo Stato intervenire a regolamentare il mercato, poiché questo va lasciato fare, avendo la predisposizione naturale di assestarsi sulla base delle scelte razionali che gli individui prendono di volta in volta.
Ma abbandoniamo il mondo dell’economia così detta classica per esplorare quella che dagli anni Settanta si è mostrata al mondo come approccio comportamentale all’economia di mercato. Alla domanda come si comporta un investitore? Sicuramente la finanza tradizionale risponderebbe in modo tale da ricondurlo all’Homo oeconomicus:
un investitore adotta l’attitudine finanziaria dell’essere
perfettamente razionale che punta
a massimizzare il suo beneficio
minimizzando le perdite e il rischio.
Meir Statman, docente di Economia finanziaria presso l’Università di Santa Clara, ha affermato come nella vita reale dell’economia comportamentale, a dispetto della teoria proposta dalla finanza tradizionale, la psicologia conta più del calcolo matematico e razionale.
Tornando al gioco di prima, avete fatto la vostra scelta?
Vediamo dunque quanto sarebbe razionale rispondere, considerando che il gioco è a somma zero.
Sia per chi riceve in offerta i 100 dollari, sia per chi riceve in offerta una porzione di quei 100 dollari
ogni singolo centesimo è regalato ed sarebbe quindi un guadagno a prescindere per entrambi.
Sarebbe pertanto ragionevole che chi guida la negoziazione offra la minima somma possibile, così da tenersi il grosso del malloppo. Dal canto suo chi si vedesse regalare anche un solo dollaro non troverebbe motivo logico e razionale per rifiutarlo. Il problema è piuttosto un altro ed attiene alla sfera emotiva.
Quale persona accetterebbe che vi metteste in tasca 99 dollari per vedersene dare solo 1? Chiunque, conoscendo le regole di questo gioco, direbbe : ” o facciamo a metà o rifiuto e nessuno dei due porta a casa nulla!” O addirittura potrebbe dire: ” O mi offri il 70 percento o non metti in tasca neppure un dollaro!”.
Questo meccanismo innesterebbe una sorta di stallo alla messicana che spingerebbe i due contendenti o a trovare un punto d’accordo che stia nel mezzo, oppure a mandare in malora l’offerta per tornarsene a casa a mani vuote entrambi.
Considerando a questo punto che nel regolamento del nostro gioco non è prevista la negoziazione, l’offerta è prendere o lasciare e quindi chi fa la proposta deve tenere in conto di farla abbastanza buona così da non vedersela rigettare e perdere tutto quanto.
In altre parole chi fa l’offerta deve agire come un buon investitore, considerando che chi accetterà o rifiuterà la sua proposta agirà sulla base dell’assunto che, negli affari di finanza, conta più la psicologia del calcolo logico. Non sarebbe per nessuno sensato offrire più di un dollaro e non sarebbe altrettanto ragionevole per qualcuno rifiutare un dollaro piovuto dal cielo. Il problema è che è indispensabile pensare alla componente emotiva legata a sentimenti di orgoglio, invidia, ambizione e quant’altro, che porterebbero una qualsiasi controparte a rifiutare un’offerta poco soddisfacente.
In finanza è quindi comprovato che l’agire
umano non porta necessariamente alla massimizzazione
del beneficio e alla minimizzazione delle perdite.
Purtroppo siamo troppo intelligenti per comportarci razionalmente, siamo troppo empatici per avere quella freddezza da automi che realmente ci porterebbe a fare scelte che sarebbero fino in fondo razionali. Per un individuo, che non presenti un leggero grado di autismo, sarebbe pressoché impossibile ignorare che la psicologia nella vita, e in finanza, conta più della ragione. Sarebbe pertanto impossibile vincere al gioco qui proposto.
Ha senso spendere 800 o 1000 dollari ( usiamo i dollari perché fa più figo) per un oggetto in voga, ma il cui omologo dal marchio meno prestigioso costa la metà e funziona uguale se non meglio? Ha senso comprare e consumare molto più di quello che ci serve per vivere dignitosamente?
Sicuramente quello che ci spinge verso azioni illogiche e che vanno contro il nostro benessere, come anche il consumo di alcol, di sostanze stupefacenti o il gioco d’azzardo è insito nella sfera emozionale e non in quella razionale e risponde ad impulsi provenienti dall’emisfero basso “limbico” del cervello, che si attiva in presenza di gratificazione immediata.
È pertanto questo bisogno di gratificazione immediata che porta la scelta dell’investitore a cadere nella trappola della componente imprescindibile della psicologia, che condiziona anche le scelte in finanza.
Tra le personalità di spicco che governarono i germogli nascenti, di quella che si sarebbe definita come disciplina della finanza comportamentale, ricordiamo Benjamin Graham:
“Il principale problema di un investitore,
forse il suo peggior nemico,
è probabilmente se stesso”.
Quanto Graham, negli anni Trenta del secolo scorso, insegnava alla Columbia University rappresenta l’essenza della rilevanza della psicologia nella finanza. Quanti di voi investirebbero su titoli azionari in perdita? Forse nessuno, parrebbe illogico e decisamente poco razionale, eppure quanti di voi comprano abbigliamento di marca quando sta a saldo e costa poco?
Non a caso Warren Buffet, imprenditore e guru della finanza statunitense afferma che a lui
“piace comprare roba di valore quando costa poco”.
Ed è in sostanza quello che facciamo tutti noi, senza essere terrorizzati dall’idea che rischiamo di perdere somme ingenti. In Finanza, che è invece il luogo delle paure, delle scelte ponderate troppo o ponderate male, agiamo diversamente. Ci nascondiamo dietro il filtro della paura che genera il fenomeno del panic selling e, quando vediamo che le cose vanno male, vendiamo di colpo. Oppure ci affrettiamo a comprare un’azione in salita perché vuol dire che essa sta andando bene, ignari del fatto che non salirà all’infinito e che il momento per cavalcarne l’ascesa è ormai già passato.
Consapevole che in finanza l’aspetto psicologico conta più dello sterile calcolo matematico, che dovrebbe essere semplicemente un mero supporto, Benjamin Graham ha elaborato la teoria economica del value investing, in base alla quale occorre concentrarsi non sull’andamento negativo di un titolo, quanto piuttosto sul suo valore reale, rappresentato dalla sua promessa di crescita e dal suo fatturato annuo.
Il segno rosso dell’indicatore di borsa può essere giustificabile da una momentanea crisi sistemica del mercato di appartenenza, oppure dal fatto che si tratta di giovani aziende sottovalutate dal mercato e che, se gli si da un pochina di fiducia, un giorno cominceranno a crescere, o usciranno dalla crisi dando forse notevoli soddisfazioni.
Un segnale della rilevanza che ha la psicologia in finanza ce lo può dare la Storia, con gli innumerevoli crack finanziari che il panic selling (intesa come una vendita rilevante e su larga scala, di strumenti finanziari che provoca rapidi e diffusi crolli di valore) ha generato. Nel 1929 la borsa di Wall Street è crollata non per un errore di calcolo o per una statistica interpretata male ma perché, presi dal panico, gli investitori hanno iniziato a vendere i loro titoli in massa.
Nel 2005, alla vigilia del crack dei mutui Sub Prime, il bizzarro azionista Michael Burry, inventandosi il prodotto dei CDS (Credit Default Swap) applicati ai mutui, ha iniziato ad assicurarsi presso molteplici e famigerate compagnie di assicurazione per coprirsi circa il crollo imminente, da lui previsto, del sistema immobiliare. Facendo ciò per somme ingenti e sistematicamente ha generato l’idea che una crisi stesse per esplodere e di fatto ha diffuso un comportamento adatto e condiviso che ha effettivamente accelerato il default dell’immobiliare.
Bibliografia:
- Enrico Maria Cervellati ed Alberto Pattono, Investire con tesa e cuore, Accademia Anima – Franco Angeli Ed.,2017,Milano
- Michael M. Pompian, Behavioral Finance Investor Types, John Wiley & sons, 2012, New Jersey
- Richard Thaler, Misbehaving la nascita dell’economia comportamentale, Einaudi Ed., 2018, Roma
- Richard Thaler, Nudge: Improving Decisions About Health, Wealth and Happiness, Penguin Books, 2017