La maggioranza di governo in Italia è sempre stata un problema. Un problema che ha posto le basi per le innumerevoli crisi socio politiche di cui il nostro Paese si è sporcato le mani dinnanzi alle responsabilità che, poche volte, si è saputo assumere con il proprio elettorato.
Molti ne hanno fatto una questione che il politologo Gianfranco Pasquino ha definito come di “mera ingegneria costituzionale”, ma che è in realtà una ragione storica.
Quando in Europa esplosero le due sanguinose guerre mondiali, l’Italia uscì dai propri confini nazionali e quello che era stato fino ad allora appannaggio della classe borghese elitaria, fatta di nobili e aristocratici, divenne sempre più alla portata di tutti. Si sta parlando in sostanza della politica.
La politica italiana era stata fino alla Prima Guerra Mondiale una questione per pochi intellettuali che avevano manifestato la propria attitudine a fare politica in quello che sarà consegnato alla storia come Stato liberale. Fu proprio questo Stato liberale a regalare all’Italia la tanto desiderata, e forse anche meritata, unità.
La politica italiana era stata fino alle due guerre mondiali un aristocratico esercizio risorgimentale che pochi capivano e che ancora meno erano quelli in grado di farlo comprendere al popolo. Non a caso il marchese e leader della Destra storica, nonché anche pittore filosofo e scrittore, Massimo d’Azeglio, pronunciò la famosa frase “Ora che abbiamo fatto l’Italia bisogna fare gli Italiani”.
Del resto era chiaro, in quel lontano 1861, che in un Paese così analfabetizzato, povero, secolarmente avvezzo ad esser dominato più che a dominare, in cui era difficile comprendersi poiché ognuno parlava una lingua diversa, e pochi quella italiana, l’unità potesse essere vissuta come reale oltre che meramente sulla carta.
La maggioranza di governo sembrava tuttavia l’unica cosa che realmente funzionasse, in quanto il suffragio elettorale era appannaggio di pochi eletti e quei pochi oligarchi erano da soli bene in grado di tenere la compagine burocratico-organizzativa dello Stato liberale.
In quella forma di Stato era ben facile poter contare su esecutivi stabili ed autorevoli che avessero larga maggioranza parlamentare. Bastava garantire ordine pubblico e sicurezza che in campo economico, le leggi del mercato e del buon senso, avrebbero fatto il resto secondo il principio cardine del liberismo: il “lascia fare” (laissez faire).
Il problema della maggioranza di governo, almeno per l’Italia, si avrà proprio con la democrazia liberale e la nascita dei partiti di massa. La Prima Guerra Mondiale farà del popolo italiano quello che Cavour e d’Azeglio tanto avevano sperato. Le regioni italiane vedranno giovani partire insieme per la guerra, incontrarsi nelle trincee e scambiarsi munizioni e viveri. Gli Italiani saranno costretti a uscire dalle loro regioni e a comunicare tra loro.
Nella tragedia della Prima Guerra Mondiale il popolo italiano troverà il minimo comun denominatore per gettare le basi della propria identità nazionale. Paradossale quanto grottesco, ma la vera unità d’Italia si avrà con la Prima Guerra mondiale.
Dal punto di vista politico avremo, nel 1919, una nuova legge elettorale di tipo proporzionale che avrà come obiettivo quello di accompagnare il nuovo governo Nitti alla gestione della ricostruzione post bellica. Si assisterà alla nascita dei partiti di massa, primo tra tutti quello Popolare di Don Luigi Sturzo che riporterà i cattolici sulla scena politica italiana.
Questa massificazione della politica starà alla base di un nuovo modo di gestire la cosa pubblica, incentrato non più sugli ideali romantici del Risorgimento liberale, ma su esigenze provenienti dal basso.
La mancanza di una stabile maggioranza di governo del Paese sarà quindi il risultato della massificazione della politica, divenuta di tutti e per tutti. Si faranno strada le esigenze dei ceti medi, degli operai e delle masse che potranno godere finalmente dell’elettorato attivo universale, proprio grazie alle pressioni del Partito socialista e del Partito popolare.
Lo stesso Partito fascista italiano, come quello nazista in Germania, saranno una risposta al bisogno delle masse di entrare attivamente nella cosa pubblica e di far valere le proprie esigenze. Se pur abbiano sviluppato delle derive totalitarie e repressive, i partiti fascista, nazista e comunista sovietico sono partiti di integrazione. Scopo primario era quello di voler inglobare in sé l’intera popolazione.
Se pur di matrice totalitaria, le dittature che si formarono nell’Europa a cavallo tra le due Guerre mondiali sono originate da movimenti dal basso; risposte concrete a istanze collettive e popolari. Nelle loro evoluzioni future questi partiti totalitari hanno lasciato un’eredità che ha messo i Paesi europei nelle condizioni, Italia in primo luogo, di dover fare i conti con la maggioranza di governo instabile e incerta.
In Italia i governi che si troveranno a dover ricostruire il Paese dopo la Seconda Guerra Mondiale e dopo l’esperienza del nazi-fascismo, si troveranno a dover gestire i problemi ripartendo proprio dal basso. Ripartendo cioè da dove il totalitarismo aveva trovato terreno fertile per poter attecchire e acquisire consensi.
Un Paese nato da un ideale risorgimentale, appannaggio di poche menti illuminate, si è trovato a dover dare voce ad esigenze concrete provenienti dal basso e da quei gruppi sempre tenuti ai margini della vita politica. In seguito alla Prima Guerra Mondiale questi gruppi esplosero tutta la loro frustrazione e repressione identitaria offrendo il proprio consenso ad un partito totalitario che sembrava avere tutte le risposte ai problemi socio economici che affliggevano il Paese.
Dare una risposta democratica al bisogno di stabilità della maggioranza di governo, senza sfociare nel totalitarismo ma, al contempo, dare voce e conciliare tutte le spinte avanzate dai nuovi partiti di massa, sarà la sfida più grande dei governi italiani fino ai giorni nostri.
Bibliografia:
- Simona Colarizi, Storia politica della Repubblica 1943-2006, Laterza, Bari.
- Gianfranco Pasquino, Nuovo corso di Scienza politica, Il Mulino, Bologna.
- Indro Montanelli, Storia d’Italia Vol. 6-10, Corriere della Sera, Milano.