Matteo Renzi e prima di lui Bettino Craxi e il suo erede Silvio Berlusconi. E’ una tradizione italiana che sembra volersi ripetere come catturata dalla perversa ragnatela di Nietzsche. E’ la ragnatela della storia, con le sue trame fitte che finiscono sempre per replicare i propri cicli.
Una storia iniziata con il caso giudiziario di “Mani Pulite”, condotto dal casto e puro Antonio Di Pietro, ai danni di una politica accusata di percepire finanziamenti illeciti per i propri partiti, agevolando traffici di malaffare in cambio di “mazzette” e voti elettorali.
Quanto dovrebbe far riflettere è che il caso di “Tangentopoli“ è servito a Di Pietro per lanciarsi in quell’arena politica che tanto aveva combattuto e che, a quanto pare, la storia ha dimostrato non gli faceva poi tanto schifo.
Matteo Renzi sembra aver toccato con mano, negli ultimi anni, il destino di ogni politico che, dall’Antica Roma ad oggi, sempre si è dovuto misurare con il peso del proprio successo. Più è grande il successo e più si scoprono essere pesanti le accuse giudiziarie verso chi è al centro dei riflettori dell’agone politico.
Giulio Andreotti affermava “il potere logora chi non ce l’ha”, ma questo era forse possibile per chi aveva conosciuto il meccanismo del comando dal trono inviolabile della Democrazia Cristiana. All’infuori di questa arena, cerchia di intoccabili santoni, mezzi Dei e mezzi uomini, (non a caso Andreotti era chiamato “il Divo”) nessuno si è salvato dal pagare il prezzo del proprio potere.
Alla luce di quanto è accaduto con l’accusa di finanziamenti illeciti per il partito “Italia Viva” di Matteo Renzi, conviene ricordare il fattore alla base di queste presunte frodi all’integrità democratica del Paese. Nel panorama politico italiano, a differenza di quello francese o anglosassone, il lobbismo non è regolamentato.
Mentre negli Stati Uniti è una cosa normale per un partito politico ricevere sostentamenti economici da grandi gruppi, in Italia non è reato ma è mal visto perché non ha una disciplina giuridica consolidata.
Negli Stati Uniti o in Francia, o in Gran Bretagna, ma in misura minore anche in Germania, è assolutamente normale che un gruppo privato, detto per l’appunto di pressione, finanzi uno schieramento politico. La logica è proprio quella di giocare un ruolo decisivo nello stabilire le politiche pubbliche (issues) esercitando delle pressioni sul governo in carica. Questo non affatto è reato, bensì attività di lobby politica.
Il tutto è chiaramente disciplinato da norme giuridiche che stabiliscono i limiti di tale attività; disciplina giuridica che in Italia è una groviera di vuoti normativi. Sono proprio questi vuoti normativi che lasciano spazio a clientelismi di stampo mafioso, finanziamenti illeciti e quant’altro.
Ecco dunque che Matteo Renzi è caduto nella trama ciclica della storia italiana e si è trovato alle calcagna una magistratura agguerrita pronta a piovere sulla sua testolina di politico italiano la spada della Giustizia. Anche l’impegno dei magistrati in politica, di assai dubbia democraticità, ha da sempre sfruttato un vuoto normativo.
La Costituzione italiana non vieta ad un ex magistrato di impegnarsi politicamente anche se, e non serve essere giuristi per capirlo, la questione genera non pochi conflitti di interesse. Come si possa considerare democratico che un ex magistrato si trovi ad operare come politico su casi nei quali ha precedentemente indagato, è ancora un mistero.
In termini di principio di separazione dei poteri Montesquieu si è sicuramente rivoltato nella tomba più e più volte. Chiaramente nel caso di “Mani pulite” il problema derivava non solo dalle “mazzette” che venivano date ai politici in cambio di concessioni di appalti sull’edilizia e la sanità, ma anche dall’appropriazione indebita che i politici facevano di finanziamenti pubblici. Ecco dunque che con “Mani pulite” è venuto meno il finanziamento pubblico dei partiti.
A questo punto perché dovrebbe essere anticostituzionale che “Italia Viva” abbia acquisito fondi per la propria campagna elettorale dalla Fondazione Open? Semplicemente perché il meccanismo di interventi esterni al mondo politico è malvisto in un paese, contrassegnato dall’ipocrisia del garantismo, come è l’Italia.
Ipocrisia perché di fatto l’organo che dovrebbe tutelare la legalità del mondo politico, la magistratura, è un organo primariamente implicato nella politica stessa. Quindi è inammissibile, per il nostro Paese, che un gruppo privato finanzi economicamente un partito nel quale crede, ma è assolutamente lecito che un ex magistrato possa esercitare come politico.
Al di là di questa grottesca contraddizione vale la pena notare come nella storia politica italiana degli ultimi trent’anni, chi ha avuto un pochino di potere politico, prima o poi, abbia sempre dovuto fare i conti con la magistratura.
Bettino Craxi, Silvio Berlusconi, ed ora Matteo Renzi. Tutti ladri, mafiosi, corrotti. Nessuno vuole fare l’avvocato del diavolo ma è onestà intellettuale riconoscere che l’Italia avrebbe bisogno di una riforma della Giustizia che parta dalla Costituzione, vietando espressamente ad un ex magistrato di entrare in politica. Questo sarebbe alla base del principio di separazione dei poteri.
Sarebbe altresì opportuno non vedere l’attività di lobbying come un gioco mafioso, ma regolamentarla in modo chiaro al fine di evitare che sfoci nell’illegalità. Servirebbe poi una rimodulazione della legge elettorale perché vi siano delle garanzie per la maggioranza, affinché possa governare in maniera stabile e produttiva per la crescita del Paese.
In fondo cosa ci sta di male nel finanziare una politica e metterla nelle condizioni economiche di poter vincere le elezioni e investire sul Paese? Assolutamente nulla l’importante è farlo nella legalità di una chiarezza normativa.