Accordo Transatlantico: cosa sarebbe successo se non fosse saltato

Accordo Transatlantico: cosa sarebbe successo se non fosse saltato

Pare che l’Accordo Transatlantico sia andato a monte, ma cerchiamo di capirne quelle che sono le grammatiche perchè, non si sa mai, la condanna per l’Europa ed i suoi rapporti transatlantici, potrebbe nuovamente palesarsi all’orizzonte.

Accordo Transatlantico: dimostrazione del passaggio da una logica militare ad una politica del controllo economico-finanziario.

 

In un contesto globale sempre più proiettato verso le logiche di un controllo economico, cambiano gli ambiti del confronto internazionale ma le grammatiche, grosso modo, restano alquanto invariate. Una volta c’era per gli Stati Uniti l’incubo dell’Unione Sovietica, oggi questa fobia di controllo si è spostata dall’ambito militare e territoriale alla sfera economica e spaziale. Se prima le dinamiche del confronto internazionale tra le Super Potenze ruotavano attorno al territorio e alla deterrenza in termini di arsenale bellico, tanto convenzionale, quanto non convenzionale, oggi il controllo è legato alla finanza.

In questo scenario di mutamento sistemico il territorio diviene semplicemente, e sconfinatamente, spazio. Uno spazio non più ascrivibile all’aspetto materiale, geopolitico e territoriale, quanto piuttosto virtuale e mediatico. Se alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale il banco da gioco su cui si gestivano le scommesse sulla securizzazione Occidentale era quello del controllo degli armamenti e degli approvvigionamenti bellici, oggi più di prima, la sicurezza è affidata alla gestione dei traffici commerciali e dei flussi virtuali di moneta. Tali transazioni avvengono sotto la forma di titoli più o meno tangibili; confusi nel marasma del cyber-spazio.

Negli anni Novanta, in ragione di quell’approccio alla sicurezza, che le logiche di allora imponevano, gli Stati Uniti vollero garantirsi il sostegno dell’Europa attraverso un accordo che fosse in grado di cementare quel rapporto di connubio tra i due continenti.

Il “Building Sharing”, letteralmente parafrasabile come “il basamento per la condivisione”, avrebbe dovuto rappresentare una delega ufficiale all’Europa, da parte degli USA, per quella che sarebbe dovuta essere la gestione della stabilità politica nell’area Est del Vecchio Continente. In sostanza, con questo accordo, veniva posto il sigillo su un’alleanza logistica e militare, cara agli Stati Uniti, già dal Piano Marshall, che sarebbe stata rappresentata da una sorta di divisione dei compiti in aree cruciali per il dominio strategico.

Con la nuova guerra balcanica si vedrà un’occasione unica per la Nato, a guida statunitense, per mettere alla prova quel legame ritrovato con la neonata Unione Europea degli accordi di Maastricht. Quest’ultima diveniva ora una sorta di “segretaria” degli Stati Uniti per quanto riguardava le vicende europee.

Di fatto, con quello che passerà alla storia come “Nuovo patto Transatlantico” (“New Transatlantic Bargain”), le logiche ormai obsolete del contenimento sancivano la loro definitiva evoluzione in una nuova ontologia dei rapporti tra Stati Uniti e neonata Unione Europea. Questo rinnovato rapporto di collaborazione verrà messo a dura prova anni dopo con la sfida del terrorismo islamico, nelle guerre in Iraq e in Afghanistan, ma nonostante tutto riuscirà a resistere, quando meglio, quando peggio, fino ad oggi.

La matrice della svolta epocale prefiguratasi nel Trattato transatlantico per il commercio e gli investimenti (TTIP)

Viene da chiedersi come mai, a distanza di anni dalla Seconda Guerra Mondiale, si senta nuovamente l’esigenza di fondare le basi per un accordo volto a favorire gli scambi commerciali tra Stati Uniti ed Europa. Già con l’ERP gli Usa avevano legato indissolubilmente il loro destino a quello europeo. Ogni volta che quest’alleanza storica è stata messa in discussione, si è trovato il modo di rinsaldarla e lo si è fatto sempre sulla base di logiche meramente legate alla sicurezza militare.

L’11 Settembre 2001, non da ultimo, ha mostrato in diretta mediatica che le logiche della protezione, “alla vecchia maniera”, altro non erano che un castello di sabbia per una Super potenza, quella statunitense, ormai vicina alla perdita del controllo egemonico unipolare. Sembra necessario, ora più che mai, ritrovare delle nuove logiche su cui basare quell’alleanza storica USA-Europa.

A differenza degli anni Novanta appare ora superato il criterio di una spartizione territoriale, poiché obsoleto un approccio di ripartizione dei compiti sotto il profilo logistico e militare. Il nuovo Trattato transatlantico, attualmente conosciuto come un progetto segreto di cooperazione commerciale ed abbattimento tariffario tra i due continenti, qualora andasse in porto, sancirebbe il definitivo crollo delle basi concettuali che sono a fondamento del principio di sovranità statuale.

Lo scorso Nove novembre la Commissione europea ha deciso di diffondere un opuscolo di circa 18 pagine che fornisse, a dispetto dei principi basilari di trasparenza e democrazia, qualche parvenza di delucidazione in merito all’accordo in fase di negoziazione.

In questo fascicolo l’accordo è definito come “un mezzo per incrementare e facilitare gli scambi tra Europa e Stati Uniti ed avvantaggiare gli investimenti”.

Sembra un po’ strano che, dopo anni dall’ERP, si senta l’esigenza di stipulare un accordo per promuovere il libero scambio tra due zone ormai unite da un rapporto più che saldo, anche a livello commerciale. Questo accordo, piuttosto, sembra un pretesto per concedere carta bianca a quelle multinazionali che vedrebbero ora decadere ogni limite di controllo in termini di qualità e certificazione, tanto per i prodotti, quanto per i processi.

Uno dei capisaldi su cui si era fondata l’Unione Europea aveva riguardato da sempre le certificazioni di qualità, limite democratico e sacro per regolare il commercio ed i processi produttivi. Quel limite, di buon senso, prima che di democrazia, potrebbe essere eluso da un trattato che venderebbe il principio di sovranità alle logiche di lobby private e multinazionali.

L’accordo riguarderebbe tre aspetti principali di intervento: quello normativo, l’aspetto legato all’abbattimento degli ostacoli non tariffari e la promozione di un libero mercato tra continente europeo e Stati Uniti. Questa omologazione normativa significherebbe la fine di molti dei provvedimenti in materia di “Due diligence” su cui l’Unione Europea ha, fino ad oggi, fondato la sua esistenza. Degli otto punti fondamentali della dichiarazione delle Nazioni Unite ILO, sui diritti dei lavoratori, ad esempio, gli Stati Uniti ne hanno ratificati solo due.

Alla base dell’accordo ci sono forti interessi di banche e multinazionali e non è difficile capirne i motivi. In un contesto in cui lo Stato è sempre meno proprietario e garante della moneta, esso deve negoziare la propria sovranità con quegli attori che ne controllano l’indebitamento. Non a caso uno dei punti maggiormente controversi dell’accordo, è la così denominata clausola AISDS: “Investor-State Dispute Settlement”.

Sulla base di questa postilla un soggetto giuridico, che veda violati i propri diritti di investitore, potrà ricorrere ad un tribunale terzo, qualora riconosca tali soprusi perpetrati dallo Stato destinatario degli investimenti esteri in questione.

Perché mai Washington voglia un simile accordo non sembra difficile da dedurre. Ormai le guerre di procura, che da anni gli Usa portano avanti, hanno creato dei buchi di notevole portata nelle finanze Usa. Sembra pertanto che solo una svendita totale della sovranità statuale alle logiche del lobbismo più sfrenato potrà salvare la situazione. Di fatto, ormai, a controllare il timone di quell’unipolarismo alla deriva, ci sono solo le armi della finanza. Questa è in mano alle multinazionali, alle banche e alle finanziarie, che muovono i gangli della società politica.

Accanto a questa totale perdita di senso sovrano, cui gli Stati Uniti stanno assistendo, c’è lo spauracchio di un colosso euroasiatico che perpetra la sua ascesa, mettendo in discussione la credibilità di Washinton. Non a caso di recente, in seguito agli errori della politica Obama, che ha gettato la Russia di Putin nelle braccia di Pechino, lungo la “Nuova via della seta”, è stata ricercata un’intesa tra Washington e Cuba.

Unica possibilità di salvezza per gli Stati Uniti risiede in uno schieramento a due linee che garantisca a Washington, da un lato un polmone finanziario sempre disponibile, dall’altro una amichevole deriva rispetto a quei nemici storici di sempre.

Nel primo caso gli Usa puntano al favore delle multinazionali, mentre nel secondo caso a garantirsi l’appoggio di nemici storici da sottrarre, ora più che mai, ai lusinghevoli corteggiamenti del dragone asiatico. Questo voltafaccia lo si è visto prima con la commemorazione del disastro di Hiroshima, poi tramite la politica di disgelo con Cuba e, infine, con la recentissima soppressione dell’embargo militare su Hanoi, in Vietnam.

Mentre assistiamo alla decadenza, di quei principi cardine del miglioramento continuo (kaizen), su cui l’UE aveva fondato il proprio lavoro in ambito economico, attendiamo trepidanti che storiografi e politologi, del calibro di Henry Kissinger, scrivano la loro opinione sull’altalenante quanto zoppicante presidenza Obama.

 

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Alessandro Gatti

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